In natura ogni forma corrisponde a un organismo che
le impone la propria esistenza e, inevitabilmente, il
proprio carattere. L’artista deve saper cogliere lo
spirito stesso della natura e tentare di creare un
mondo esattamente come lo crea la natura: forme
che affermano il loro diritto alla vita.
C.Brancusi
Come non toccare le nuove sculture di Matilde Mancini per sentire il freddo del
bronzo e il caldo del legno impegnati in una seducente danza di forme che
sembrano rispondersi reciprocamente?
Queste opere hanno un afflato ascensionale,
irrevocabilmente volto verso l’alto e, fatte le debite proporzioni, possiedono
strutturalmente qualcosa di quella metamorfica spinta elevatrice che fa tornare alla
mente uno dei più sublimi capolavori scultorei di tutti i tempi, “Apollo e Dafne” del Bernini.
Così, nei sorprendenti esiti recenti della sua lunga ricerca in cui si uniscono
all’unisono i due materiali (bronzo e legno) finora usati separatamente, con uno scatto qualitativo davvero convincente che fa leva sul concetto di dualità, Matilde Mancini riesce a far convivere l’immediatezza della materializzazione formale con la
profondità della riflessione filosofica, unite in una osmosi piena di equilibrio.
Nel
primo caso, l’artista parte, con un atto di umile sensibilità nei confronti della natura, dai suggerimenti formali offerti dalle radici di ulivo abbandonate e perlopiù raccolte sotto la Rocca dei Borgia a Subiaco per creare un dialogo con il bronzo liquido
gettato a terra e solidificato, con un procedimento tecnico difficile e delicato.
Ecco nascere, senza studi, bozzetti o disegni preparatori, queste “Forme gettate”, in cui il
caso si unisce all’intuito e all’esperienza dell’artista per dar vita a sculture che
sorprendentemente sembrano poter crescere ancora per un fremito organico in divenire.
Sono forme che possono ancora “accadere”, rifuggendo qualsiasi cristallizzazione definitiva, espandendosi fra caos e ordine con una naturalezza
modulata dall’azione (forse “action sculpture”?) sensibile ed empatica dell’artista che si apre con fiducia al mondo.
Sono estensioni di un accordo creativo che rifiuta
la chiusura e la prassi puramente imitativa. Nella loro danza potenziale, bronzo e legno sembrano scolpirsi reciprocamente secondo ritmi misteriosi e cosmogonici
mentre Matilde Mancini diventa intermediaria fra questi due materiali.
Ma, e arriviamo così all’aspetto filosofico sotteso a questa ricerca, il participio passato “gettate” che connota questo ciclo di opere non allude solo all’uso e alla condizione
del legno trovato e del bronzo “lasciato in libertà”, perché a monte c’è una
riflessione sul concetto di “gettatezza” di Heidegger: l’Esserci (essere-qui),
espressione con la quale il grande filosofo tedesco indica la realtà umana, si trova a essere gettato nel mondo, in quanto l’esistenza gli è imposta indipendentemente
dalla sua volontà. Heidegger precisa che la “gettatezza” è una condizione affettiva,
in cui l’uomo comprende l’impossibilità di mutare la costituzione del proprio essere: solo dunque nella dimensione dell’in-essere (l’essere dell’Esserci è sempre dentro
qualcosa e quindi il contesto, il luogo in cui è, fa parte in maniera determinante della sua costituzione d’essere) è possibile per l’uomo tentare una possibile
comprensione del mondo, poiché il senso del proprio essere si dà sempre in un contesto imprescindibile.
Ma l’oggettiva complessità di questa riflessione, pur innervando alle radici la ricerca attuale di Matilde Mancini, non diventa mai puro
sfoggio culturale esibito e bisognoso di pannelli didascalici, come avviene in tanta pseudo-arte contemporanea incapace di affermare autonomamente le pure ragioni della forma e praticamente sostituibile con saggi filosofici, antropologici o
sociologici.
Il concetto heideggeriano è un humus che feconda in profondità le
sculture di Matilde Mancini ma non le condiziona o irrigidisce concettualmente,
lasciando libera quella sorta di crescita organica e quell’accenno di “amplesso” fra
forme e materiali che donano un’infinita vitalità a queste opere “duali”, animate da
un’agitazione interna assimilabile a quella della fiamma.
E quanto sia intensa la forza
evocatrice di queste forme mi è stato dimostrato dalle associazioni imprevedibili e
probabilmente esagerate che esse mi hanno portato a fare, pensando ad esempio
che le 14 opere di cui mi ha parlato l’artista nel nostro primo incontro mi hanno
fatto venire alla mente le 14 stazioni della Via Crucis, immaginando il corpo bronzeo
di Cristo gettato nel mondo e crocifisso sul legno di ulivo, simbolo di pace e di
rigenerazione.
Questa probabile forzatura serve soprattutto come esempio per far
capire che le forme plastiche di Matilde Mancini non sono cristallizzate in un solo
significato possibile e quindi autoreferenziali ma sono generatrici di innumerevoli
aperture immaginative proprio in quanto innervate da una metamorfica organicità
potenzialmente in divenire.
Del resto, come aveva spiegato Marcel Duchamp, “l’atto
creativo non è compiuto solo dall’artista. Lo spettatore, decifrando e interpretando
le qualità intrinseche dell’opera, la mette in contatto con il mondo esterno e
aggiunge così il proprio contributo all’atto creativo”. L’opera deve però predisporci a
questo incontro fecondo senza basarsi interamente sulle parole, perché, come
diceva Yves Klein, bisognerebbe “sentire l’anima senza spiegazioni”.
Come non
pensare, solo per fare un altro esempio, al fatto che l’artista mette in dialogo un
materiale naturale con uno prodotto dall’uomo per sollecitare implicitamente,
ancora una volta senza alcuna verbosità, quell’unione pacificatrice fra esseri umani e
natura che ponga fine alla distruzione sistematica del pianeta Terra? Non più
animati da una volontà dominatrice, l’uomo e la donna dovrebbero tornare a
sentirsi parte integrante del mondo naturale e proprio a questo sembrano invitare le
sculture di Matilde Mancini.
Heidegger, nel suo celebre scritto “L’origine dell’opera d’arte”, sostiene che
qualsiasi sia la materia utilizzata dallo scultore, egli agisce sempre in relazione al
vuoto.
Per il geniale filosofo l’arte, inoltre, è il mettersi all’opera della verità
nell’opera: è la verità stessa a mettersi in opera nell’opera, non l’artista né il mondo
oggettivo. La verità è la vera bellezza. E a mio parere le sculture di Matilde Mancini
sono colme di verità interiore che prende forma fra pieni e vuoti, avvallamenti,
rugosità, lacerazioni, escrescenze, sensuali sommovimenti, originatisi con una sorta
di processo naturale pieno di una spontaneità controllata. Senza dubbio, la nostra
artista potrebbe ben condividere questa acuta riflessione di Antony Gormley: la
scultura “è una forma fisica del pensiero che fa crollare la distinzione cartesiana tra
res cogitans e res extensa.
La gioia della scultura: il palpabile lambisce l’intelligibile.
Viviamo in un’epoca in cui l’arte sembra accordarsi al teatro. Oggi trionfa la moda
dell’accrescimento.
Io, invece, credo nella sintesi e nella sublimazione. Siamo in una
sorta di amnesia digitale: le registrazioni del pensiero e del sentimento non sono più
nel corpo, ma in un codice, smaterializzate. Perciò, mentre ci confrontiamo con la
cibernetica, con il digitale e la quarta rivoluzione industriale, abbiamo un intimo
bisogno della scultura”.
Così Matilde Mancini crea trepidanti “monumenti” alla vita
nel suo farsi, nella sua misteriosa necessità di esistenza/resistenza.